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Quel prodigio di Rex

15 Feb

prodigio rexTutti i libri di Patricia MacLachlan – quelli che abbiamo letto tempo fa in collane storiache, come “Baby”, “Primo amore” o il sublime “Sarah né bella né brutta” o Album di famiglia, così come quelli arrivati più recentementi sugli scaffali italiani – seminano perle preziose intorno a due argomenti: la vita e gli affetti (in primis, la famiglia) e le parole, quelle che stanno nei libri, quelle che si sono dette, quelle che sono sospese perché non le si riesce a dire. Anche questo ultimo romanzo conferma la grande capacità di questa autrice di confrontarsi con la misura breve e di scrivere ad altezza dei protagonisti di cui assume il punto di vista: qui sono i sette anni di Grace che si rapporta con la dura realtà di come si cresca e le cose inevitabilmente cambino. MacLachlan lo racconta però lasciando in sordina il “grande tema” e ritraendo la quotidianità di una bambina che ha per zia una scrittrice e la cui maestra pensa che abbia anche lei delle storie da raccontare. Può essere difficile però trovare proprio la storia che vuoi narrare e metterla sulle pagine di un grande quaderno; esattamente come può essere faticoso per una scrittrice trovare la partenza giusta per un nuovo libro. Forse ci vuole un po’ di magia, come quella che il cane Rex sa fare quando ne ha voglia (e per chi ne ha voglia!). Intanto ci si rende conto conto  che sorprendere gli altri è una bella sensazione e che il crescere può anche essere definito come “la vita che sta diventando grande”.

Autrice irrinunciabile per chi si occupa di ragazzi e di lettura, coi suoi libri che arrivano un po’ in punta di piedi, sempre poetici e già classici e intramontabili anche quando sono appena nati. Questo arriva in libreria giovedì; aspettatelo e intanto, a proposito di aprole, andate a rileggere Una parola dopo l’altra e Le parole di mio padre, Premio Andersen 2020 come miglior libro 9-12 anni.

Patricia MacLachlan – ill. Emilia Dzubiak, Quel prodigio di Rex (trad. di Stefania Di Mella), HarperCollins 2021, 112 p., euro 12,90, ebook 

Le parole di mio padre

18 Giu

Patricia MacLachlan e le parole. Non solo quelle poetiche di romanzi come “Baby”, “Album di famiglia”, “Sarah né bella né brutta” o quelle di Mirabel che arriva in classe per parlare di come le usi lei che è scrittrice (vi ricordate “Una parola dopo l’altra”?). In questo romanzo breve le parole provano a dire con delicatezza un dolore grande come la morte di un padre, un dolore declinato per la voce della protagonista, ma anche del fratello più piccolo e della madre. Ci sono le parole che annunciano la morte, quelle che la dicono, quelle che provano a raccontare e passano sul filo del telefono, tutti i lunedì alla stessa ora. Ci sono parole che si cantano, parole che avvolgono, parole da leggere ad alta voce per farsi vicini e amici.

Declan O’Brien, il papà della protagonista, amava usare espressioni curiose, amava cantare quasi quanto giocare a basket e pare avesse sempre una parola buona per tutti, come dicono ai figli dei perfetti sconosciuti. Fiona racconta cosa scopre del padre quando lui non c’è più. E come sia possibile cominciare a superare lo choc iniziale grazie al consiglio di un amico, che accompagna lei e il fratello in un rifugio per cani abbandonati. Allora la storia dice del valore del prendersi cura, ma anche di come possa essere diversa la storia della tua vita a seconda dei genitori che ti toccano in sorte: Thomas è un paziente del padre i cui genitori si aspettavano che in qualche modo fosse lui a rimettere tutto a posto nelle loro vite. Thomas però insegna a Fiona come può capitarti comunque di incontrare qualcuno che, indipendentemente dal ruolo, tenga accesa la luce per te, proprio come dice quella poesia che Declan ha lasciato alla figlia.

Patricia MacLachlan, Le parole di mio padre (trad. di Stefania Di Mella), HarperCollins 2019, 139 p., euro12,90

Fai finta che io non ci sia

18 Giu

rosoff

C’è un ingrediente magnetico, quasi ipnotico, nella storia di Mila che non ti lascia abbandonare le pagine fino a che non sei arrivato all’ultima, cercando di comprendere cosa ci sia alla base della scomparsa dell’amico di famiglia, aspettandoti forse chissà che e ritrovandoti a pensare all’umanità, complessa e insieme semplicemente imperfetta.

Mila ha dodici anni, lo stesso nome di un cane di famiglia e del terrier ha anche il fiuto e la determinazione; si ritiene davvero in gamba nel risolvere enigmi, nel dedurre, nel tracciare linee tra gli indizi e anche nell’aver cura di suo padre, con cui sale su un aereo che da Londra la porta negli Stati Uniti per trascorrere le vacanze di Pasqua con la famiglia del miglior amico del padre. Pochi giorni prima della partenza, però, la moglie di Matthew avvisa della sua scomparsa. Mila e Gil partono comunque, spinti in qualche modo dalla sensazione che lo ritroveranno, che non si può sparire così proprio quando sai che arriva qualcuno importante per te. Eppure Mila si trova di fronte a un vuoto che si percepisce in casa, nel muoversi di un cane e di un bambino, ed è un vuoto voluto, di un uomo che scrive in un messaggio, come unica traccia, di non essere da nessuna parte.

Il viaggio verso una casa che Matthew possiede nei boschi del nord diventa un immergersi nella natura, nella bufera di neve di aprile, ma anche nel passato: inattesi incontri, svelamenti su episodi che hanno segnato ciascuno e occhi nuovi con cui guardare la situazione e gli adulti che la circondano. Insieme Mila parla di sé, della fatica di crescere, dell’amicizia con Catlin così forte in passato così in bilico ora, della sua famiglia, di quell’intreccio di affetti dove si è comunque in tre, anche quando non si è tutti insieme, e delle famiglie degli altri. Trovando sempre nuovi angoli nascosti, nuove rivelazioni, nuove cose, proprio come esplicita: Stiamo cercando Matthew, ma continuiamo a trovare altre cose.

È un flusso continuo quello che l’autrice (complice anche una superba traduzione) offre al lettore: Mila parla in prima persona e inanella i suoi pensieri e i dialoghi con chi la circonda spesso senza segni che li identifichino immediatamente come tali, creando un attimo di spaesamento a cui poi ci si abitua, prendendo il ritmo della narrazione e accordando il proprio passo a quello della dodicenne. Oltre tutti gli altri argomenti sfiorati tra le pagine, il romanzo offre una fantastica riflessione sulla lingua e sull’arte del tradurre: Gil, il padre della protagonista, è infatti un traduttore dal portoghese all’inglese e spesso la figlia (di cui tutti negli States amano l’accento e lei non capisce il motivo) inserisce dei passaggi in cui riflette sulle lingue, sulle persone che non hanno una madrelingua, arrivando a porre in parallelo quel che sta vivendo. Rendendosi conto che il padre sa più di quello che dice, Mila vorrebbe che le traducesse la storia di Matthew e delle persone che hanno incontrato, scritta in una lingua che lei non capisce, ben sapendo che la situazione più faticosa di tutte è quella in cui la storia viene da un posto in cui il traduttore – per quanto si sforzi di camminare accanto all’autore – non riesce ad andare.

Qualche giorno fa vi dicevo della miglior lettura dell’anno fino ad ora; ecco, questo romanzo le si siede subito vicino e sgomitano, quanto sgomitano. La poesia racchiusa nel modo in cui Meg Rosoff dà voce a Mila è penso senza pari.

Il sito dell’autrice.

Meg Rosoff, Fai finta che io non ci sia (trad. di Stefania Di Mella), Rizzoli 2015, 250 p., euro 15, ebook euro 6,99

Una parola dopo l’altra

15 Feb

Certe cose arrivano con il quattro. In quarta elementare, il quarto giorno del quarto mese dopo le vacanze di Natale, una scrittrice famosa venne a incontrare la nostra classe.

Dice Patricia MacLachlan che questo libro è nato quando le chiesero di scrivere sulla scrittura e sulla vita dello scrittore. Rendendosi conto che era un argomento di cui parlava sempre coi bambini che incontrava o che le scrivevano, ne nacque non un saggio ma una storia. Nasce così la figura di Ms. Mirabel che incontra una classe e si ritrova a rispondere prima alle solite domande (da “hai sempre voluto fare la scrittrice?” a “quanto guadagni?”), poi a trascorrere alcune giornate con gli stessi ragazzini a cui legge dei brani e a cui chiede di scrivere. Nei pensieri dei ragazzi, nelle loro frasi, nelle brevi poesie si intrecciano le piccole e le grandi cose della loro vita: la tristezza e l’albero di lillà, il cane perduto e i nuovi arrivi, le attese e i perché. Dove si dice che tutti dentro abbiamo una storia, che si può scrivere per mille motivi tra cui per salvare tutte le cose che si hanno, che le parole sono semi che la pioggia bagna e il sole scalda perché nascano le storie.

Non so a chi leggerei o farei leggere questo libro. Agli adulti, mi sa. Le piccole storie e le voci dei bambini che si intrecciano lungo le pagine e sul filo delle parole consegnate a Ms. Mirabel sono per loro. Perché se le parole hanno il potere di cambiare la vita delle persone, quel potere è legato alla capacità di ascoltare le parole, anche quelle che non si riesce a dire, anche quelle che bisognerebbe sempre esser bambini per saper dire con tanta semplice limpidezza.

Patricia MacLachlan, Una parola dopo l’altra (trad. di Stefania Di Mella), Rizzoli 2012, 107 p., euro 10.

La prima volta

2 Nov

More about La prima voltaScrollo le spalle. “è quel genere di storia. Certe parole sono necessarie perché questa è vita vera, ma non si possono usare apertamente perché siamo troppo giovani per leggere nero su bianco quello che nella realtà già facciamo, capito?”

La prima volta. Sì, quella prima volta lì. Che dà il titolo a questo libro “quello con le mutande in copertina?”, come mi hanno chiesto in libreria. Sì, quello con le mutande in copertina insieme a una banana, ma – per dire – ci sono anche dei calzini sulla copertina… Questo libro è una raccolta di racconti di alcuni dei maggiori scrittori britannici per adolescenti che parlano della perdita della verginità a modo loro, senza moralismi, con parecchia ironia ma anche con spietato occhio sulla nuda realtà. Ci sono le voci di Melvin Burgess, Anne Fine, Keith Gray, Mary Hooper, Sophie McKenzie, Patrick Ness, Bali Rai e Jenny Valentine (e le sfumature dei loro otto diversi traduttori) che offrono differenti sguardi, punti di vista, conclusioni. Ci sono voci di maschi e di femmine; ci sono tentennamenti di adolescenti, saggezze di persone anziane, ricordi di prof, imbarazzi di genitori, vite da anni e Paesi lontani. Ci sono padri che fanno discorsi ai figli pretendendo per l’imbarazzo che questi ultimi non li guardino in faccia, ma si guardino i piedi. Ci sono ragazzi che si chiedono quale sia il plurale di “gay”, c’è il potere delle parole, la forza della poesia e anche i rovesci della medaglia (tipo quando ti rendi conto che forse, a giocarti la carta giusta, adesso usciresti tu – e non James – con Drew e che non avevi mai notato prima quanto lei fosse bella). C’è sesso e c’è amore, c’è silenzio e c’è attesa.  Ci sono  le differenze di età, le differenze di intenti, le differenze tra gli Eddy e i Danny. C’è quello che perdi. E quello che trovi. Perché è trovare il resto che è importante.

Uno dei racconti, quello scritto da Patrick Ness e da cui ho tratto la frase riportata qui in alto, è tutto strisciato di nero: ci sono parole, paroline, parolacce e intere frasi cancellate, nascoste dietro spessi tratti neri che stanno a significare proprio quel che dice il protagonista: che certe parole non si possono usare, perché provocano imbarazzo negli altri o negli adulti che ci stanno intorno, che ci vedono leggere questo libro o acquistarlo o prenderlo in prestito. Il che mi ha ricordato una sensazione già vissuta: così sono andata sull’opac SBN e ho contato in quante biblioteche civiche italiane fosse presente al prestito “Il chiodo fisso” di Burgess, pubblicato per Mondadori nel 2005:  sono 112. Ogni volta che incontro qualcuno che pensa che quel libro non sia da proporre ai ragazzi, che l’autore l’abbia scritto per vendere dato l’argomento, mi chiedo se l’ha letto fino in fondo. Se ha dato ascolto alle diverse voci dei differenti ragazzi e ragazze che ci sono in quelle pagine, se si ricorda i pensieri, le paure, i tentennamenti di quell’età. Perché quel libro, come questo, è un libro necessario (tanto per riprendere la voce del protagonista di cui sopra). Perché questa è vita vera. Quando è buffa, quando è drammatica, quando è diversa da come ce la aspettavamo. Nel peggio, ma anche nel meglio… Facciamo che tra un anno vado a contare quante biblioteche pubbliche hanno a scaffale “La prima volta”…

La prima volta, a cura di Keith Gray, Rizzoli 2011, 250 p., euro 12,90

Il bambino con il cuore di legno

26 Ott

More about Il bambino con il cuore di legnoNoah Barleywater se ne andò di casa al mattino presto, prima che il sole sorgesse, prima che i cani si svegliassero, prima che la rugiada finisse di posarsi sui campi.

Noah se ne va di casa perché da un po’ di tempo a casa succedono cose particolari (gli è permesso andarse improvvisamente da scuola a metà mattina; ha visto una spiaggia trasferirsi a bordo di una piscina; sua madre lo ha svegliato perché vedesse l’alba al freddo e al gelo), perché non ha voglia di dare una risposta a una domanda che gli gira dentro, perché ha deciso che a otto anni è pronto per vivere una grande avventura indimenticabile. Noah se ne va perché scappare è più semplice che vivere. Quando esce dal suo villaggio improvvisamente il mondo si fa singolare: alberi che sembrano spostarsi, mele che tremano di paura sui rami, bassotti che parlano, asini che reclamano il loro quindicesimo pasto quotidiano a gran voce. Finché entra in un negozio di giocattoli e incontra uno strano vecchio che da ragazzo è stato il più grande campione di corsa che sia mai esistito, che non ha mai avuto la mamma ma un papà molto amorevole e un vicino di nome Mastro Ciliegia (!) e che ha passato la vita ad intagliare marionette. E mentre mangiano pranzo in quel magico negozio dove gli oggetti hanno vita e un nome, l’uomo racconta a Noah la sua vita, attraverso una serie di marionette che escono da un baule, fino a convincere il ragazzo a tornare indietro. Questo libro, sospeso tra il dolce e il triste della storia di Noah e il mondo magico delle favole, ci racconta che certe cose a volte bisogna proprio dirle, che non bisogna aver paura della parole (mucchietti di lettere messe insieme a caso), che certe cose possono non sembrare interessanti, ma solo perché non le si guarda come si dovrebbe. E che quando si entra nella vita di qualcuno (anche quando lo si fa aprendo una vecchia scatola di legno) lo si deve fare con la massima cura.

“Posso aprirla?” chiese dopo aver deciso che la cosa più semplice era andare diritto al punto. “Posso vedere che cosa c’è dentro?”.  Il vecchio aprì la bocca per rspondere ma poi distolse lo sguardo, perplesso, come se non fosse sicuro di volere che la sua scatola dei ricordi fosse aperta al mondo esterno. (…) Alla fine, il vecchio tornò a guardarlo negli occhi e gli sorrise, con un lieve cenno del capo. “Se vuoi sì” disse piano “solo, abbi cura della cose che troverai. Sono molto preziose per me”.

Il sito di John Boyne, autore anche de La sfida e de Il bambino col pigiama a righe. Il sito di Oliver Jeffers che ha fatto le illustrazioni della copertina e quelle interne e di cui avevamo parlato qui.

John Boyne – ill. Oliver Jeffers, Il bambino con il cuore di legno (trad. di Stefania Di Mella), Rizzoli 2010, 249 p., euro 15.

La sfida

7 Apr

More about La sfidaLa mamma era lì, davanti a lui. Non lo guardava negli occhi ma non guardava neanche per terra. Era come se stesse fissando una macchia sulla parete alle spalle del papà, e non avesse intenzione di distogliere mai più lo sguardo di lì.
Accanto a lei c’erano due poliziotti. (…) erano tutti molto seri. Non bisognava essere dei geni per capire che era successo qualcosa di brutto.

In un pomeriggio d’estate, in cui Danny si è goduto la casa stranamente vuota e tutta per lui, improvvisamente tutto cambia: i poliziotti che la sera riaccompagnano a casa la mamma spiegano che c’è stato un incidente, la madre ha investito un ragazzino che di colpo  le ha attraversato la strada e ora lui, Andy, è in coma all’ospedale. L’equilibrio della famiglia di Danny va in pezzi, come del resto quella della famiglia di Andy, che Danny va a spiare per vedere com’è. Per poi scoprire che la sorella del bambino viene a spiare casa sua per lo stesso motivo. Tra Danny e Sarah nasce un’amicizia, un legame dettato dalla situazione impensabile che si è creata, un’amicizia che nessuno capisce e che tutti ostacolano. Un’amicizia che avvolge il segreto di Sarah sul pomeriggio dell’incidente.

Questo è il sito di John Boyne, autore de “il bambino col pigiama a righe” e de “il ragazzo del Bounty”. Lo abbiamo incontrato a Bologna, a Bolibrì, dove stava raccontando a un gurppo di ragazzi che il libro che Danny legge – David Copperfield – è in assoluto il suo libro preferito di quand’era ragazzo. Un libro che ancora adesso, ogni tanto, va a rileggersi. Sta scrivendo un nuovo libro che sarà pronto per l’autunno.

John Boyne, La sfida (trad. di Stefania Di Mella), Bur extra 2010, 103 p., euro 10.