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Mi chiamo Nako

10 Giu

mi chiamo Nako“I nostri nomi sono tanti: zingari, gitani, romanichels, gypsies, manouches, sinti, rom, nomadi, camminanti”. Così vengono indicati, ma il protagonista di questa storia si presenta con il suo nome – perché un nome è importante – e racconta di come ancora più importanti siano le domande che guidano i passi sulla strda della vita. Lui se ne intende, per ogni volta che già il villaggio su ruote in cui vive si è spostato, per tutte le rotte e i viaggi che ha sentito raccontare nella grande storia del suo popolo. Un popolo che non ha una terra, ma possiede una bandiera e un inno; un popolo che vive all’insegna della libertà, come liberi sono i cavalli a cui Nako si sente affine e vicino. Il bambino racconta del popolo rom, evocandone le tradizioni, l’importanza della musica, le caratteristiche, in un testo ben distante dall’essere moralistico o didascalico (come a volte purtroppo libri a tema tendono ad essere), ma che invece – proprio nella chiave di questa lettura da parte del protagonista – trova il modo di avvicinare a questa cultura in modo immediato, grazie anche alle immagini poetiche di D’Altan.

Le ultime pagine contengono il testo dell’inno rom e alcuni proverbi tipici.

Il testo era uscito in Francia nel 2014 per Le Baron Perché con le illustrazioni di Magali Dulain: bello potergli vedere addosso anche un’altra interpretazione stilistica.

Guia Risari – Paolo D’Altan, Mi chiamo Nako, Paoline 2020, 40 p., euro 14, ebook euro 10

Lucas

9 Set

Ecco un nuovo romanzo di Kevin Brooks e vien da dire che è il Brooks migliore, quello apprezzato in Naked e ne L’estate del coniglio nero. Un romanzo duro, dove sai fin dall’inizio che la vicenda non avrà certo quel che si definisce lieto fine, anzi, ma che ha un profondo significato innanzitutto per la scelta di far raccontare in prima persona dalla protagonista e di mettere sulla pagina il suo sguardo, i suoi sentimenti, il deflagare degli avvenimenti sul suo corpo e sul suo animo.

Caitlin vive sulla minuscola isola di Hale, collegata da un ponte alla terraferma, insieme al padre che scrive romanzi per ragazzi e cerca di sopravvivere alla morte della moglie avvenuta quando i figli erano piccoli. La conosciamo sulle soglie dell’estate, quando il fratello torna a casa dall’università e comincia a frequentare la cattiva compagnia di un gruppo di ragazzi del luogo, intorno a cui bazzica anche Bill, la vicina di casa e amica da sempre di Caitlin. Ma è un’amica che lei non riconosce più, che passa il tempo a vestirsi in modo provocante, a cercare l’attenzione dei più grandi, a bere al pub per finire a vomitare sul ciglio della strada. Lo sguardo di Caitlin invece è catturato dalla figura di un ragazzo biondo, con lo zaino in spalla che vede sul ponte. Scoprirà poi che il giovane è sull’isola da qualche tempo, fa lavoretti nelle fattorie, vive in una radura quasi magica nascosta nel bosco. Lo conosce sulla spiaggia e il sentimento magnetico che la travolge non ha pari. Ma il candido e misterioso Lucas è al centro dell’attenzione degli abitanti dell’isola che lo additano come vagabondo, rom, insomma il diverso da allontanare. Un incidente durante l’annuale regata diventa il pretesto per scatenare contro di lui l’odio, accresciuto dai ragazzi della banda che vogliono montare ad arte delle accuse e incolparlo di reati che non ha commesso. Nel tentativo di difenderlo, Caitlin proverà tutta la forza della violenza, del pregiudizio e della facilità con cui le persone fanno massa credendo a fatti assolutamenti inventanti ed illogici.

Molto bella la figura del padre di Caitlin, descritto nella sua umana debolezza, nella fatica del vivere, ma anche nella capacità di crescere la figlia con uno sguardo aperto e attento a ciò che è giusto, alle scelte necessarie. E un applauso per la riga finale 😉

Kevin Brooks, Lucas. Una storia di amore e di odio (trad. di Giorgio Salvi), Piemme 2019, 334 p., euro 17, ebook euro 7,99

Katitzi e il piccolo Swing

30 Lug

Ecco il secondo volume della serie/saga dedicata a Katitzi e alla sua famiglia che i lettori hanno già imparato a conoscere nel precedente libro in cui la protagonista ha dovuto affrontare il difficile passaggio dall’orfanotrofio al campo rom; è tornata infatti a vivere con la famiglia d’origine (il padre, i fratelli, un terribile matrigna chiamata La Signora) scoprendone meccanismi, modi e tradizioni e dovendosi adattare. In questo nuovo libro, le vicende si svolgono nella Svezia del 1940 e viaggiano su un doppio binario: l’ambito famigliare e quello che invece considera il momento storico e sociale. Katitzi scopre l’amore: l’affetto di suo padre, il rapporto stretto con le sorelle e il fratello, in particolare con Rosa che di fatto le fa da madre, il matrimonio di Rosa con un cugino, l’amore “romantico” in un film al cinema, il ricordo del legame con quella che considerava la nonna e che – sorpresa! – è ancora viva e lei vorrebbe rivedere (qui il romanzo si chiude, lasciando intravedere quel che verrà). Dall’altra parte la riflessione sulla condizione di una famiglia rom in Svezia nel primo periodo della Seconda Guerra Mondiale: è significativa la prima parte in cui l’autrice riesce al meglio nel suo intento di descrivere umiliazioni, discriminazioni e preconcetti che nessuno dovrebbe subire: Katitzi e la sorella Lena vengono inviate in città per alcune settimane, a vendere ciotole porta a porta. Vengono descritte le diverse reazioni da parte delle persone che incontrano (chi aiuta, chi rispetta la dignità delle bambine, chi insulta, chi chiude le porte in faccia) come esempi delle diverse possibilità e prese di posizioni che si potevano avere in quel frangente, e non solo vista l’attualità del tema…

Non lascitevi ingannare dal titolo: il piccolo Swing, il grazioso cagnolino di Katitzi, non è che un marginale personaggio che compare accanto alla ragazzina, che si perde e si fa cercare, ma che non è certo il centro della narrazione. Per i lettori appassioanti: la serie conta ancora altri undici libri, li aspettiamo!

Katarina Taikon – ill. Joanna Hellgren, Katitzi e il piccolo Swing (trad. di Samantha K. Milton Knowles), Iperborea 2019, 184 p., euro 15

Flamingo Boy

3 Giu

La grande passione di Morpurgo per la storia e la sua capacità narrativa ne fanno un grande trasmettitore di fatti storici che riesce spesso a mettere sotto gli occhi del lettore dei momenti poco conosciuti, ma molto interessanti. Lo scrittore utilizza di libro in libro degli escamotages diversi che spesso però puntano sul racconto da un adulto a un ragazzo, da un testimone del tempo a un giovane (un nipote sovente) tramite narrazioni o diari o lettere. In questo caso la cornice narrativa è data da un giovane inglese di nome Vincent che intraprende un viaggio nel Sud della Francia, sui luoghi vissuti da Van Gogh la riproduzione di un cui quadro campeggia sul suo letto fin da quando è bambino. Complice un colpo di calore o un malore mentre si ritrova nei dintorni di Aigues-Mortes viene soccorso da un uomo e si risveglia in una casa dove quest’uomo di poche parole vive con un cane e una donna: sarà lei a vegliare sulla convalescenza di Vincent e a riempire le ore di immobilità con il racconto della sua vita: Kezia è di origine nomade; i suoi genitori erano giostrai la cui giostra di legno intagliato e il cui organetto allietavano chi passava sulla piazza del paese della Camargue. Proprio grazie alla giostra la sua famiglia ha stretto amicizia con quella Lorenzo, un bambino capace di comunicare con gli animali e di curarli, affascinato dai fenicotteri, ma molto meno a suo agio con gli umani e considerato diverso. L’intreccio delle loro storie, il legame forte che i due bambini stringono ha come sfondo la Seconda Guerra Mondiale, l’arrivo dei tedeschi nella Francia di Vichy, la distruzione della giostra, le delazioni. Morpurgo mette tra le righe il clima di quegli anni, le leggi razziali e le deportazioni, il destino dei rom (citando qui il campo di Saliers in cui erano internati appunto i rom nella Francia del Sud), ritraendo la forza dei genitori di Lorenzo e kenzia e la figura di un tedesco amico. Su tutto – e non poteva essere diversamente visto il luogo pieno di fascino in cui è ambientato il libro – c’è la natura: le saline, i voli dei fenicotteri, il prfilo di quella terra così bella che è la Camargue. E la musica di “Sur le pont d’Avignon”. Non so se conoscete i posti, ma per me un po’ sono casa e allora vale in questo romanzo sapere che – prima ancora dell’ambientazione storica – Morpurgo è riuscito a rendere sulla pagina perfettamente i toni, i colori, i suoni della Camargue, il senso delle tradizioni, le Saintes-Maries-de-la-Mer, Arles e Aigues-Mortes. Insieme racconta il senso del viaggio come destino, la forza che viene dall’avere una storia e delle radici che non per forza ancorano alla terra, ma che sicuramente offrono una dimensione del sé che dà sicurezza, che permette di andare nel mondo e scegliere, seguendo le curve della strada, come si dice nel libro fin dalla prima pagina.

Michael Morpurgo, Flamingo Boy (trad. di Marina Rullo), Piemme 2019, 237 p., euro 16, ebook euro 6,99

Il pavee e la ragazza

5 Nov

Di Siobhan Dowd abbiamo imparato ad amare la scrittura, la sensibilità ma anche la capacità di dire grazie all’editore Uovonero e alla collana a lei dedicata, a cominciare da quel gioiello che è Il mistero del London Eye. Con questa pubblicazione l’editore offre un’ultima perla alla collana Dowd, consegnando al lettore un racconto lungo egregiamente illustrato dagli acquerelli di Emma Shoard. Nella non semplice misura del racconto, Dowd riesce ancora una volta a essere tremendamente efficace ed essenziale, andando dritta al punto con una poesia cruda e netta quanto il vento che immaginiamo soffiare sulla scogliera evocata. Alla richiesta di scrivere un racconto su un ragazzo rom, l’autrice immagina la condizione di Jim, accampato con la famiglia a Dundray, l’ostilità della città e della scuola, le prese di mira dei bulli, la difficoltà di frequentare una classe in cui non solo non ci si sente a proprio agio, ma dove bisogna anche nascondere che non si è mai imparato a leggere. Ci sono l’indifferenza degli altri, la violenza, ma anche la luminosità della mamma del protagonista, nel suo vestito giallo, che spera che il figlio impari parole per poi regalarle a lei, e quella di Kit, pura e meravigliosa come la sua voce, che imbastisce per Jim l’abc della lettura e dell’amore. E solo Siobhan Dowd poteva definire luminosi i codini alti di una ragazza, in una narrazione che procede secondo la realtà, in un finale amaro dove per sopravvivere bisogna andarsene, scappare, lasciare, addirittura attraversare il mare, portandosi dietro solo la luce dei momenti migliori.

Quando ho recensito Il riscatto di Dond, ho scritto: “C’è un’immagine, nelle prime pagine di questo libro, che assomiglia a quella della copertina e che ritrae la protagonista ferma sul bordo della scogliera, il mantello e la lunga treccia accarezzati dal vento e lo sguardo che intuiamo lontano: sa perfettamente qual è il destino che l’attende, ma è comunque lì, in piedi, vestita della sua dignità di fronte al vento e al precipizio. È così che mi immagino Siobhan Dowd quando ha scelto – negli ultimi giorni della sua vita – di fondare l’organizzazione che porta il suo nome, quando ci ha lasciato delle storie grandiose e potenti che la rendono, ogni volta che vengono lette, voce viva”. Sulla copertina di questo nuovo libro, come in alcune delle immagini interne, se ne stanno in piedi, a guardare l’orizzonte, Jim e Kit: sono due, e mi piace pensare che rappresentino noi lettori che apprezziamo Siobhan Dowd e che non rimaniamo soli, perché abbiamo sempre le sue storie a cui tornare.

Siobhan Dowd – ill. Emma Shoard, Il pavee e la ragazza (trad. di Sante Bandirali), Uovonero 2018, 116 p. euro 15

Katitzi

7 Giu

La direttrice dell’orfanotrofio che la ospita definirebbe Katitzi una bambina ribelle, disubbidiente, fonte costante di guai. In realtà questa bambina di sette anni e poco più è fortemente intraprendente, piena di vitalità e pronta a fare quello che ha in mente. Sovente viene rimproverata per colpa dell’invidiosa Rut (per tutti Brut ed è già tutto detto) che fa la spia. Quando la conosciamo, scopriamo una bambina che sta bene nel bozzolo caldo dell’istituto, che ha due grandi amici come Gullan e Pelle e che si appresta a una nuova vita. Il suo papà è venuto a cercarla dopo molti anni per portarla dalla sua famiglia, ma Katitzi non è pronta: la sua insegnante ottiene di rimandare la partenza per due settimane per cercare di placarne le paure e di prepararla al meglio. I compagni però cominciano a mormorare: qualcuno ha spiegato che la bambina è una zingara, con tutta la bufera di pregiudizi connessi.

Sono gli stessi che Katitzi incontrerà una volta tornata in famiglia: le persone che non vogliono i rom sui terreni del paese, l’impossibilità a frequentare la scuola… Lei intanto deve abituarsi a fratelli e sorelle, a dormire in tenda, a raccogliere legna la mattina presto, a dare una mano nel luna park che il padre gestisce. Anche il cibo è nuovo e diverso, come i vestiti, le abitudini, la lingua che lei non  comprende perché nessuno le ha mai insegnato il romanés.

Le storie di Katitzi – questo è il primo di tredici libri famosissimi in Svezia e trasformati anche in film – vengono dalla reale esperienza dell’autrice: Katarina Taikon era nata nel 1932 da padre rom e madre svedese e visse un’infanzia caratterizzata da divieti e persecuzioni. Visse esattamente come la sua protagonista e imparò a scrivere e leggere correttamente solo a 26 anni. Attrice di cinema e teatro, divenne parte della scena culturale svedese degli anni Cinquanta e cominciò a battersi per i diritti del suo popolo, ottenendo miglioramenti. Nei suoi libri descrive la realtà come l’ha vissuta, assegnando al suo alter ego la capacità di affrontare le cose con una grande serenità, dovuta probabilmente al suo status di bambina che sa guardare oltre, senza cadere nel didascalico o nel ritratto tematico. C’è anche un certo modo di guardare al mondo adulto, come un mondo separato, di modi e regole che a volte non si comprendono, con cui non si comunica, che a volte pare ridicolo (come il comportamento della direttrice a ogni comparsa del predicatore!) o crudele. Ci sono adulti che cercano di essere all’altezza dei bambini, come la maestra Kvist che cerca di saperne di più sui rom per poter spiegare alla bambina. Ci sono adulti che sanno dell’assurdità e della violenza del pregiudizio razziale e se ne vergognano, come l’anziana signora che per un po’ ha permesso alla famiglia di sostare nella sua proprietà. Ecco, in tempi in cui Liliana Segre, col numero di ingresso al campo di concentramento tatuato sul braccio, si alza in Senato e rimarca concetti come “Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi. Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le energie che mi restano”, una figura come quella di Katitzi, che cerca di camminare nel modo più dignitoso possibile nonostante sia difficile abituarsi ai suoi nuovi abiti, brilla nella sua testimonianza semplice, efficace e assolutamente priva di retorica.

Katarina Taikon- ill. Joanna Hellgren, Katitzi (trad. di Laura Grimaldi e Samanta K. Milton Knowles), Iperborea 2018, 253 p., euro 13,50

Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere

6 Set

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Ancora di libri riscoperti tra gli scaffali preparando le proposte di lettura per il nuovo anno scolastico. Questa volta la storia in prima persona di Damian, bambino di sette anni che vive nel campo alle porte di Correggio dove da decenni è stanziata la sua comunità. Damian ritrae il suo campo, la sua famiglia, i mille lavori cambiati da suo padre (finché non viene casualmente scelto come testimonial per una pubblicità di trapani elettrici), il nonno che racconta di eventi passati, l’amico che alleva pesci nelle pozzanghere o almeno finge di crederci. Damian ritrae, spiega i termini che usa, dice delle usanze, pungola il lettore coi pregiudizi. Poi racconta della prima volta in cui è salito sul pulmino, vestito di rosso come un babbo natale fuori stagione; della prima volta in cui ha messo piede in una classe (era marzo ed era una seconda elementare), della prima volta in cui ha visto Elisa.

Grazie anche all’ingaggio pubblicitario del padre, Damian ha una casa di legno anziché una kampina con le ruote e studia fino al liceo e all’università, fino a uscire dal campo per andare a vivere in un appartamento. Damian sta in bilico tra romanè e gagi, zingari e non, dentro e fuori dal campo e dalla comunità, finendo per chiedersi chi sia realmente e quale sia il suo posto. L’essenziale è scritto, anzi tracciato, in un foglietto che il nonno porta con sé e che da generazioni ci si tramanda come il possesso più prezioso, l’unica cosa a dover sopravvivere alla morte di chi lo ha custodito. Quel foglietto permette al lettore di ascoltare storie che vengono dal passato e che si intrecciano con la Storia, interrogandosi sul contenuto che poi – svelato – è quanto di più semplice ed essenziale davvero ci si possa portare appresso.

In una delle scene finali del libro alcuni ragazzini di un campo rom di Milano spiegano al protagonista che un famoso calciatore “era a loro dire, uno del popolo nostro“, riportando sulle pagine del romanzo il fatto che molte persone, tra cui alcune che hanno contribuito a fare la storia (molti partigiani, come ricorda anche la figura del nonno nel libro stesso), sono rom, ma non lo riconoscono o semplicemente non lo si sa. Mentre saperlo potrebbe aiutare anche ad avere una visione di questo popolo diversa dai luoghi comuni: a questo proposito potete leggere “Non chiamarmi zingaro” di Pino Petruzzelli, edito da Chiarelettere nel 2008; qui un estratto con la prefazione di Predrag Matvejević.

Il sito dell’autore.

Marco Truzzi, Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere, Instar 2011, 230 p., euro 14,50, ebook 6,99

Se il diavolo porta il cappello

15 Apr

Più riguardo a Se il diavolo porta il cappello

Un libro che intreccia più piani e più voci, cucendoli come unico vestito fatto di più pezze, di più narrazioni tenute insieme dal filo del protagonista, che danno come risultato un abito che si cuce alla pelle di chi legge spingendolo verso l’ultima pagina.

La voce in realtà è una sola, quella di Ciro, il ragazzino protagonista, che vive in una campagna di dopoguerra, portandosi addosso il marchio di bastardo, figlio di un soldato americano passato durante l’avanzata verso il nord Italia e di una bellissima ragazza, figlia ripudiata dal padre ricco dopo aver saputo del matrimonio notturno con il soldato. Ciro porta il suo marchio scritto nel biondo dei capelli, nella povertà della vita quotidiana, nella rabbia con cui affronta il mondo ogni giorno.

Le voci che ci propone sono diverse: c’è il racconto del suo quotidiano, degli avvenimenti che lo sospingono nell’estate che porta verso i suoi quattordici anni; un’altra voce è il dialogo col fratello gemello Dario, morto ad appena tre anni, ma che lui sente vivo, quasi fosse metà Ciro e metà Dario, con le caratteristiche dell’uno e dell’altro che appaiono a tratti nella medesima persona; l’altra ancora è quella del sogno: la speranza di rivedere e ritrovare il padre gli fa immaginare le situazioni e gli esiti più diversi, raccontati lungo il testo proprio come potrebbero venire in mente al ragazzo mentre cammina o prima di addormentarsi.

Lungo i giorni estivi di Ciro, la sua rabbia incrocia Salem, un rom che assomiglierà a ciò di più vicino a un padre che abbia mai conosciuto, e i sinti che si sono accampati ai margini del bosco. Cambierà il suo sguardo sulle figure che lo circondano, su chi lo addita come bastardo, sullo “strego” che vive isolato, circondato di libri e che conosce le formule e le erbe per curare. Sovvertirà l’ordine di un piccolo microcosmo dove spiccano singolari figuri e storie antiche, dove i soldi si conservano nelle damigiane o negli arti artificiali rinchiusi in un armadio, dove ci si arricchisce alle spalle dei poveri, dove si crede all’eterna giovinezza e si consumano riti e soprusi. Scoprirà un passato molto vicino e insieme lontano: quello che la guerra di pochi anni prima ha significato nei lager e nelle menti malate di molti. Conoscerà il Porrajmos e forse anche tanti lettori lo impareranno, visto che è quasi sempre un fratello minore nella storia dell’Olocausto.

Il sito dell’autore.

Fabrizio Silei, Se il diavolo porta il cappello, Salani 2013, 267 p., euro 13,90