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Qui nel mondo reale

7 Dic

qui nel mondo realeWare ha undici anni e mezzo ed è stato mandato per l’estate dalla nonna. Pensava di odiare il posto, invece ha scoperto quanto nell’acqua della piscina si senta a proprio a gio e di come la nonna (dal piglio decisionista, non per nulla soprannominata in famiglia Manovre Generali, dotata di una bella dose di ironia) capisca quanto gli piaccia stare da solo e non lo distolga dal “suo mondo” in cui può stare immerso per ore. L’idillio finisce quando la donna cade, si rompe le anche e Ware torna a casa condannato a due mesi di centro estivo. Il ragazzino sa di essere una delusione per i genitori, iperprotettivi nei suoi confronti, presi dai doppi turni per poter comprare la nuova casa, incapaci di ascoltare il loro unico figlio. Continua a pensare al binomio dentro/fuori, a quello che prova e che non riesce a dire, a come si possa applicare alla realtà intorno. Finché durante un’attività evade dal centro estivo e scopre un terreno abbandonato proprio lì dietro, accanto a una chiesa mezza abbattutta in cui una tenace ragazzina sta coltivando centinaia di piante di papaya. Scontrosa, un po’ saccente e chiusa a riccio, ma poco a poco Jolene e Ware si addomesticano e lui cerca di aiutarla in un compito che lei ritiene vitale per se stessa: prendersi cura delle piante, avere un giardino di cui occuparsi. Jolene è misteriosa sulla sua famiglia, Ware si sente inadeguato a ogni cosa, ma nel contempo stranamente a suo agio, e decide che quella sarà la sua estate: fingere di frequentare il centro, passare sistematicamente nel giardino sul retro, annaffiare, costruire, cercare una soluziona alla vendita all’asta dell’area, salire ogni tanto sulla torre per vedere tutto dall’alto (perché quel punto di vista fa scoprire l’inatteso e l’insospettabile). Le papaye crescono, insetti e bestiole tornano a vivere nel fossato intorno al terreno, Jolene fa risuonare la sua risata nel caldo del pomeriggio, Ware si impegna a sperare di rinascere migliore.

In una continua metafora che intreccia la sacralità di quel che il luogo è stato e di cosa possa significare rinascere, il romanzo racconta lo sguardo di due ragazzini su se stessi e sull’altro e dell’altro si prendono cura e la partecipazione di adulti che sanno guardarli davvero e indirizzarli senza darlo a vedere (la nnona e lo zio di Ware; Walter, il barista che tiene d’occhio Jolene). A guardare impara anche Ware, quando lo zio gli reagala la sua videocamera diseconda mano e gli spiega che ognuno ha un compito. Con un finale agrodolce, giusto, che mette le ali. Del resto, il romanzo viene dall’autrice di Pax, e non è poco.

Copertina e illustrazioni di Jon Klassen.

NB: e comunque, quando arrivate a pagina 40, non è già tutto lì? Non sono esattamente Tim e Lovejoy di Rumer Godden? Andate a riprendere Nella città una rosa e ditemi se non è vero…

Sara Pennypacker, Qui nel mondo reale (trad. di Paolo Maria Bonora), Rizzoli 2020, p. 300, euro 17,00, ebook euro 9,9

Pax

10 Apr

Un riflessione sulla guerra, ma soprattutto sul modo di essere e sulla verità. Nasce dal doppio binario narrativo dovuto all’alternanza, capitolo dopo capitolo, della voce di una volpe – a cui l’autrice cerca di dare materia anche attraverso quel che fiuta, che sente nelle zampe, che percepisce – e di quella di un dodicenne. Da cinque anni Peter e il suo volpacchiotto Pax sono inseparabili, fin da quando l’aver ritrovato quel cucciolo e l’essersene preso cura ha lenito la rabbia per la morte improvvisa della madre. Poi irrompe la guerra e il padre di Peter si arruola, lasciandolo a casa del nonno, non prima di avergli imposto il doloroso abbandono dell’amico. Il senso di colpa però è troppo forte, come forte è il legame e che unisce i due e Peter “scappa per tornare a casa” come gli fa dire l’autrice. Casa è dove si trova Pax, che intanto si guarda intorno, conosce altre volpi, capisce la dinamica dei rapporti con gli umani e l’eccezionalità di quello che gli è toccato in sorte. Complice però un piede fuori uso, Peter incontra Vola, donna dall’accento straniero con una gamba di legno che vive isolata da vent’anni, dopo esser stata lei stessa in guerra. La ruvidezza della donna rimanda alla nuda verità di cui è portatrice: per lei la verità è la regola, il primo dei principi che tiene scritti su schede appese in casa. Alla verità Peter deve piegarsi:il darsi tempo, l’imparare un nuovo ritmo di cammino, l’addomesticarsi reciproco raccontandosi le rispettive storie, l’evidenza della certezza che sta nel profondo dell’animo e che rende sicuri.

Ne viene appunto una riflessione sulla violenza degli uomini, sulle falsità; la guerra sta sullo sfondo: è in qualche modo surreale nella descrizione fatta, specie per bocca degli animali, è un avanzare di uomini armati, ma non se ne conoscono le dinamiche; non è questo evidentemente che importa: resta cacofonia di fondo che staglia sulla scena le figure principali, con i dubbi e i valori che portano con sé. Se Peter è raccontato nel suo divenire e nella sua tenacia, se il padre si rivela figura violenta e chiusa, Vola è un personaggio caustico e pieno di cura, ha la caparbietà ottusa di chi si è costruito una gamba rigida in falegnameria per portarsi fisicamente appresso il peso che sente nell’animo e nel contempo l’ironia splendida e feroce di chi non esita a prestare il proprio arto artificiale serio, quello datole in ospedale, allo spaventapasseri in giardino.

Il sito dell’autrice. Il sito dedicato al libro. Il tumblr di Klassen.

Sara Pennypacker con le illustrazioni di Jon Klassen, Pax (trad. di Paolo Maria Bonora), Rizzoli 2017, 300 p., euro 16, ebook euro 7,99

Il buio

18 Mag

IL BUIO

Come fare poesia partendo da una paura che può essere quotidiana e forte, come appunto quella del buio e di tutto ciò che la caratterizza (non solo il nero, ma gli scricchiolii, le ombre sinistre, gli angoli nascosti e oscuri).

Il bambino Lucio ha paura del buio che abita la sua stessa casa, che gioca a nascondersi nello sgabuzzino o ad accovacciarsi nella doccia (che però è una doccia nella vasca!) e che vive in cantina, da cui esce di notte. Lucio lo saluta ogni mattina dalla cima delle scale che portano in cantina, sperando in qualche modo che quella gentilezza faccia sì che il buio non venga mai a trovarlo. Invece lui arriva, scricchiola e sussurra invitando il bambino a seguirlo per un giro panoramico della casa. Ecco allora che l’albo riprende le stanze che il lettore ha già visitato nelle pagine precedenti e che vede ora sotto una luce diversa, sarebbe proprio il caso di dire: nelle illustrazioni si vedono infatti solo le porzioni illuminate dalla torcia e, mentre si scendono le scale insieme al protagonista, si legge di come il buio sia sempre al nostro fianco e come dia un senso al tutto e di come il buio e la luce si determinino e si diano sostanza reciproca.giochi di luce

Un bell’albo, che mi sembra perfetto nella sua forma narrativa per essere letto insieme, per carezzare come una favola e per andare di pari passo in compagnia con “Giochi di luce” di Lizi Boyd, da poco uscito per Terre di Mezzo (36 p., euro 13,90), altro invito a prendere in mano una torcia e a scoprire dettagli nascosti e abitanti della notte.

Il sito di Lemony Snicket ( e quello a nome Daniel Handler, che poi è il nome reale di questo autore). Il blog di Jon Klassen, di cui abbiamo amato gli albi in catalogo da Zoolibri.

Lemony Snicket – ill. Jon Klassen, Il buio (trad. di Francesco Spagnol), Salani 2016, 42 p., euro 14,90

Voglio il mio cappello

31 Mar

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Un orso ingrugnito cerca il suo cappello scomparso: lo rivuole indietro. Interroga animali vari che incontra nella foresta e poi si corica a pancia in su a dirsi quanto era bello quel cappello rosso a punta… Ah, ma lui l’ha visto, quel cappello, durante la ricognizione nel bosco! Stava sulla testa di quel coniglio, l’unico che gli ha risposto sgarbatamente, gridando (ci credo, ha la coda di paglia e una gran voglia di difendere il “suo” cappello, mettendo le mani avanti e svelandosi colpevole…).

Così l’orso torna indietro e riconquista il cappello che gli sta buffamente sulla sua grande testa. Così ci sono un cappello ritrovato e uno scoiattolo che cerca un coniglio con un cappello in testa… “perché me lo chiede? Non ho visto conigli…” dice l’orso. Ops… ok, ho un cappello rosso a punta. Occhio agli orsi ingrugniti, la prossima volta che esco.

Jon Klassen: blog qui e qui.

Jon Klassen, Voglio il mio cappello, Zoolibri 2012, 40 p., euro 15