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La gamba di legno di mio zio

26 Nov

“E tu, a chi appartieni?” mi chiese molti anni fa un anziano pescatore al porto di Forio d’Ischia. Non gli tornava quella ragazza nordica, sull’isola fuori stagione, scalza sotto la manta, che portava le reti in un pomeriggio di cielo nero e gocce insistenti che annunciavano burrasca e temporale. Dovevo appartenere per forza alla famiglia dal cui gozzo di legno, usurato dal tempo, ero appena scesa o almeno al ragazzo che portava il timone. Fu il modo di quella lingua a farmi pensare per la prima volta(a me, già pronta a rispondere “A nessuno” se non a me stessa)  al verbo appartenere usato in quel senso: ciascuno appartiene a una famiglia, a una discendenza e dunque alla sua storia. Ed è così mi resi conto dell’appartenere, io che ero cresciuta ascoltando tutte le storie intrecciate dei diversi rami della mia famiglia (gli episodi buffi e quelli tragici, i personaggi imperdibili, le persone partite a cercar fortuna lontano).

La stessa domanda la fa lo zio Amerigo, barba bianca e gamba di legno, al ragazzino protagonista di questo albo, nel tentativo di capire dove piazzarlo nella famiglia. Una famiglia grande, dove la nonna a Natale apparecchia anche per i fantomatici zii d’America, partiti tanto tempo prima, che per il ragazzo sono solo posti vuoti a tavola e bicchieri di vino che nessuno svuoterà. Sono storie, fotografie, imprese, tracce che si perdono, aneddoti che si ricordano. Poi improvvisamente uno di loro arriva a casa, assomiglia al capitano Achab e innesca nel protagonista una trama affascinante sulle sue vicende e su come abbia perduto la gamba, dove la fantasia e il fascino di quello zio si fondono con le suggestioni dei romanzi d’avventura letti. Lo zio ricorda che partire è perdere qualcosa: una gamba concretamente e metaforicamente ben altro lasciato indietro, dando spunto così a una riflessione sulla migrazione, sul partire , su chi è partito di qua tempo fa, su chi qui arriva arrivando da altre terre.

Fabio Stassi – ill. Veronica Truttero, La gamba di legno di mio zio, Sinnos 2019, 36 p., euro 14

Un sogno sull’oceano

8 Lug

Lo penso da quando ho ricevuto il comunicato stampa; so che questo libro conterrà una storia che conosco e racconto talvolta.

Ma andiamo con ordine: il libro innanzitutto. Ballerini confeziona una storia crossover che parla di emigrazione di ieri per parlare di quella di oggi. C’è una barca e non è certo un barcone come quelli che ci racconta la cronaca odierna, ma il mitico Titanic con i suoi saloni lussuosi, gli stucchi, le signore eleganti della prima classe, le persone famose che salgono a bordo a Southampton il 9 aprile 1912. Ma il Titanic porta sul mare tanti sogni di emigranti: quelli che hanno lasciato le loro terre per cercare fortuna altrove e in particolare, in questo caso, uomini italiani che hanno lasciato valli dove non c’era lavoro, famiglie che necessitano di aiuto per guadagnare lontano, con la speranza di tornare, chi per riprendere l’attività di famiglia, chi per sposarsi. Per ricordare le vicende degli italiani emigranti in cerca di fortuna, l’autore riprende una storia affascinante: quella del pavese Luigi Gatti, ristoratore di successo con due famosi ristoranti Ritz a Londra, che gestì anche i lussuosi ristoranti di due transatlantici come l’Olympic e il Titanic. Il lettore lo vede impegnato nella scelta della sua brigata, cuochi, camerieri e compagnia, scelti principalmente tra giovani migranti italiani. Alcuni di loro (realmente esistiti perché le persone che compaiono in questo libro – passeggeri o lavoratori – sono stati davvero passeggeri sul Titanic) vengono scelti da Ballerini perché raccontino in prima persona: in un alternarsi di voci si conoscono i loro pensieri, le speranze, le lettere e cartoline che mandano a casa, le ferree regole sociali a cui sono sottoposti, i pregiudizi a cui devono far fronte, gli stereotipi appiccicati a chiunque sia italiano. E poi, al momento dellle scialuppe in mare e dei tentativi di salvataggio, vengono chiusi dentro il ristorante perché non c’è posto per loro e manco viene preso in considerazione che possano essere salvati: sono gli ultimi, e gli ultimi muoiono insieme al loro capo che non li abbandona e muiono mangiando bene, guardando gli stucchi eleganti perché è l’unica cosa che si possa fare.

Al fondo del libro un’appendice racconta le persone citate (i responsabili della nave e i passeggeri come Guggenheim, Astor, lo scultore Portaluppi), parla di Gatti e dei camerieri a cui si dà voce e poi fa un elenco per rendere omaggio agli altri italiani membri della brigata del Ritz, di cui si sa quasi nulla perché non erano registrati su nessuna lista ufficiale. Nell’elenco dei 28 nomi con relativa provenienza figura Battista Bernardi, anni 22, di Dronero (Cuneo). Che in realtà all’anagrafe era Giovanni Battista Bernardi, chiamato Marcèl e detto Poulo (ché dalle mie parti in quanto soprannomi e stranòm andiamo forte!), ed era di Roccabruna, comune accanto a Dronero, della borgata Nouràt precisamente. In queste mie valli, ogni paese o borgata era caratterizzata da un mestiere e da una zona specifica di emigrazione (in Francia, appena oltre la montagna); ai Nouràt erano camerieri in Provenza e a Parigi. E Marcèl , da Parigi a Londra, si imbarcò come cameriere sul Titanic e figura lì, sulla foto della brigata di Gatti scattata alla partenza. Morto in mare e sepolto ad Halifax, il suo nome, la sua fine quasi leggendaria veniva raccontata in valle per memoria di chi ha conosciuto la sua fidanzata e tramite piccoli episodi, come quello della madre che si svegliò di botto invocando il figlio proprio nel momento in cui il Titanic collideva con l’iceberg. La sua storia è stata ricostruita qualche anno fa da Renato Lombardo e la potete leggere qui; è una di quelle che mi piace intrecciare nei laboratori che raccontano di queste valli fatte di immigrati stagionali o per sempre: acciugai, raccoglitori di capelli, colporteur, camerieri, muratori, incantatori di marmotte e giganti da esibire nei circhi e nei teatri. E allora che piacere trovare questa storia “mia” tra le righe di un’altra storia.

Luigi Ballerini, Un sogno sull’oceano, San Paolo 2019, 217 p., euro 14,50

La casa degli uccelli

25 Mag

Quando si parla molto di emigrazione e immigrazione, non è mai male ricordare di quando gli emigranti eravamo noi italiani: molti libri per ragazzi parlano di italiani partiti verso le miniere del Belgio, gli Stati Uniti, i Paesi del Sud America, l’Australia… Un romanzo prezioso come “Non piangere, non ridere, non giocare” di Vanna Cercenà (Lapis 2014) racconta degli italiani in Svizzera in un anno non troppo lontano: è il 1970 e Teresa si nasconde nell’appartamento dove vive la mamma perché è proibito ai lavoratori stagionali portare in Svizzera i propri bambini. La storia è ripresa in questo albo dal testo di racconto lungo in cui un bambino, abituato a cambiare sovente casa per il lavoro del padre, arriva nel nord della Svizzera e va a vivere in un palazzo a tre piani: quando comincia a sentire strani rumori dalla soffitta durante il giorno, si lascia suggestionare dalle storie di fantasmi che ha letto, dall’essere solo in casa e solo dopo un po’ ne capisce il motivo. C’è una bambina nascosta nell’alloggio affittato dagli italiani e il loro segreto tempo condiviso sarà fatto di disegni, di colori sovrapposti, di uccelli che volano liberi che la ragazzina ferma sui fogli per dire la sua voglia di essere libera. In quella soffitta nasce la passione per il disegno del bambino che, anziano pittore a Parigi, rievoca l’amica di cui ignora il nome, la denuncia dei vicini, la legge che qualche volta davvero non pare giusta.

La narrazione si fa ricca delle illustrazioni di Tiziana Romanin che usa la verticalità del formato e di alcune situazioni (la facciata del palazzo, il salire verso la soffitta) appaiandola con le figure degli uccelli che scrutano, occhieggiano, accompagnano i voli della fantasia dei due protagonisti. Il libro arriva proprio dalla Svizzera: Marameo è infatti una nuova esperienza editoriale del Canton Ticino.

Davide Calì – Tiziana Romanin, La casa degli uccelli, Marameo 2019, 48 p., euro 23,50