Mi hanno chiesto durante un corso in settembre perché non avessi parlato di questo libro; risposta semplice: non lo avevo ancora letto. Se ne stava in attesa in una pila, ad aspettare il momento propizio, la neve, il fuoco scoppiettante, il giusto tempo per una storia di quelle da leggere a puntate ad alta voce, dal sapore di avventura, un pizzico dickensiano col suo fascino ottocentesco da bruma e orfanotrofio.
Ad Amsterdam arrivano all’orfanotrofio del Piccolo Tulipano nel 1880 cinque orfani in fasce che non corrispondono affatto alle tre regole da seguire per l’abbandono dei neonati. Piovono dal calendario, uno per mese tra agosto e dicembre, e hanno ciascuno qualcosa di diverso: chi sei dita per mano, chi tratti somatici che parlano di mondi lontani, chi sguardi inquietanti o braccia e gambe fuori misura. Difficile trovar loro un nome, impossibile trovar loro una famiglia. Dodici anni dopo sono ancora lì, nel gelo delle stanze a mettersi in riga ogni volta che si palesa una famiglia e la direttrice cerca di fare i suoi loschi maneggi (vende i bambini per ingenti somme di denaro senza registrare tute le adozioni). Quando uno strano figuro che si spaccia per ricco mercante pronto a salpare su una nave lussuosa vuole adottarli, i cinque scappano, facendo leva sulle qualità e le abilità di ognuno e capitanati dal desiderio di Milou di trovare la sua famiglia: è l’unica che possiede un riferimento – un nome ricamato sulla marionetta con cui è stata abbandonata – e degli indizi che conducono a un mulino in rovina fuori città, di cui si dice che il proprietario sia fuggito proprio dodici anni prima insieme all’unica figlia. Milou cuce da sempre teorie sulla sua famiglia e quando nel granaio scopre un teatro si convince di essere a casa; molti indizi potrebbero confermarlo, ma i conti non tornano, come la strana vicina di casa, un’orologiaia che vive tra meccanismi e ingranaggi e li scruta misteriosa. Sarebbe molto più semplice restar sulla soglia, non dare confidenza, rimanere ai margini, eppure è bello avere una casa, del cibo, sentirsi una famiglia, fingere di avere un adulto accanto per provare a cavarsela da soli. Ma il finto mercante incrocia la loro strada di nuovo; la terribile direttrice torna a reclamare quel che è suo e il passato bussa insistente per rivelarsi altro da quello che i bambini hanno immaginato. Intanto loro hanno scoperto il significato di famiglia e di casa e il fatto che non è necessario avere legami di sangue per sentirsi appartenere gli uni agli altri.
Narrazione ricca e avvincente che parla di diversità e di vita in buon modo, senza voler insegnare qualcosa, ma raccontando, allestendo una storia sul palcoscenico di un libro che si fa leggere volentieri a voce alta.
Hana Tooke – ill. di Ayesha L. Rubio, Gli inadottabili (trad. di Giulia De Biase), Rizzoli 2020, 416 p., euro 17, ebook euro 9,99
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